Smart working e coworking per migliorare il welfare aziendale

Andare oltre il telelavoro per far stare meglio i dipendenti, ma anche attrarre talenti e cambiare la cultura: sono solo alcuni dei motivi per cui le imprese scelgono il lavoro agile, che spesso trova un’ottima soluzione nel coworking.

di Cristina Maccarrone

Per qualcuno, fino a una manciata di anni fa, erano solo una moda passeggera. E invece smart working e coworking sono entrati nel vocabolario di tutti, anche di chi in effetti non li ha mai provati direttamente, che dimostra che non sono delle tendenze, ma dei veri e propri, per dirla all’inglese, “state of mind”, ossia degli stati mentali o, meglio ancora, dei modi di essere.

Vediamo in che modo hanno cambiato il mondo del lavoro, non solo lato dipendente, ma anche lato imprese e come far sì che siano davvero uno strumento di welfare e non soltanto un investimento fine a sé stesso.

 

 

Smart working in crescita tra le grandi imprese, meno tra le PMI

I numeri parlano chiaro: secondo l’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, i cui dati risalgono all’ottobre del 2019, gli smart worker, che godono di flessibilità e autonomia nella scelta di orari e posto dove lavorare, sono 570 mila, +20% rispetto al 2018. E sono anche mediamente soddisfatti, più di chi svolge il lavoro in modalità “tradizionale”, ossia andando in ufficio ogni giorno. Il 76% è contento della sua professione, contro il 55% di altri dipendenti e uno su tre si sente pienamente coinvolto nella realtà in cui opera, contro il 21% degli altri colleghi.

Non solo lavoratori soddisfatti, nel 2019 anche le grandi imprese che hanno attivato progetti di smart working sono cresciute del 2%, passando dal 56% del 2018, al 58% di adesso. Oltre a queste, vanno considerate altre percentuali importanti, oseremmo dire quasi “culturali”. Il 7% delle imprese non ha ancora attuato lo smart working, ma ha avviato iniziative informali e c’è un 5% che prevede di farlo nell’anno che verrà. Certo, se siete bravi in matematica, vi sarete accorti che manca un pezzo: ossia il restante 30%. Di questi, il 22% parla di una generica introduzione futura, di cui l’8% non sa se lo farà mai, o comunque non è particolarmente interessato.

E cosa succede alle PMI? Per loro il segno è positivo quanto ai progetti strutturati, passati dall’8% al 12%, mentre quelli informali dal 16 al 18%, ma continuano ad esserci molte imprese disinteressate al tema, probabilmente per una questione culturale e non solo di mezzi.

 

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I benefici e le criticità dello smart working

I benefici poi, sono tutt’altro che trascurabili. Come viene fuori sempre dalla ricerca – condotta su un campione di 1000 persone tra cui impiegati, quadri e dirigenti di organizzazioni con almeno 10 dipendenti – questi sono i principali vantaggi:

  • miglioramento dell’equilibrio tra vita professionale e privata (46%)
  • aumento della motivazione e del coinvolgimento dei lavoratori (35%)
  • soddisfazione lavorativa (32%)

Ci sono però delle criticità: secondo i manager intervistati, tra queste c’è la difficoltà nel gestire le urgenze, come asserisce il 34%, nell’utilizzare le tecnologie (32%) e nel pianificare le attività (26%). Se ancora state facendo i conti, sappiate che il restante 46% dei manager non riscontra invece nessun problema.

"Le aziende vogliono aumentare l’engagement e l’attrazione verso i talenti".

Diverso è il modo di intendere lo smart working dai principali protagonisti, ossia gli smart worker: per loro la prima criticità è l’isolamento, come dice il 35%, seguito dalle distrazioni esterne (21%) e tra gli ultimi posti i problemi di comunicazione, collaborazione virtuale e le barriere tecnologiche: 11% in entrambi i casi.

Queste criticità possono essere ancora più comprensibili se si guarda ai motivi per cui grandi aziende e PMI decidono di puntare parte del welfare aziendale sullo smart working. Tra questi, oltre al miglioramento del work life balance, c’è la voglia di aumentare l’engagement e l’attrazione verso i cosiddetti talenti così come il portare dentro una cultura diversa che si basi sul raggiungimento degli obiettivi. Le piccole medie imprese, d’altro canto, mirano al miglioramento del benessere organizzativo e dei processi aziendali.

Inoltre, per quanto riguarda le grandi aziende, sempre stando all’Osservatorio Smart Working, il 50% dei progetti va verso il lavoro da remoto, mentre il resto verso un modello più completo, che prevede anche il ripensamento degli ambienti in ottica di “ufficio smart”.

Occorre però fare una riflessione che va oltre i numeri.

 

 

Lo smartworking: oltre il telelavoro

Lo smart working, o lavoro agile, in Italia è abbastanza recente: a introdurlo, o meglio a regolarlo, è stata la Legge n.81 del 22 maggio 2017, detta Legge sul Lavoro Agile, in cui sono stati chiariti diversi punti rispetto a un passato piuttosto nebuloso. Smart working e telelavoro non sono infatti sinonimi. Il telelavoro è una forma contrattuale in cui l’azienda deve far sì che vengano rispettate alcune regole abbastanza fisse riguardo a orari, luoghi e strumenti tecnologici stabiliti a priori e dopo vari controlli e che rispettano l’assetto dell’organizzazione.

"Il lavoratore decide da sé modalità e tempi purché rispetti gli obiettivi".

Il lavoro agile, lo dice la parola stessa, basa tutto sull’agilità del lavoratore. È frutto di un accordo tra azienda e lavoratore in cui si punta su flessibilità e autonomia. Il lavoratore decide da sé modalità e tempi, purché ovviamente rispetti gli obiettivi. Ecco perché per far sì che lo smart working funzioni, non basta pensare solo alla flessibilità accennata: concorrono gli strumenti digital sì, ma anche e soprattutto le competenze e una cultura completamente diversa.

Bisogna poi coinvolgere tutti: se si decide di attuare lo smart working e in giorni fissi alla settimana, l’accordo non deve essere solo il risultato del dialogo tra management e lavoratore. Bisogna coinvolgere tutti i responsabili a vari livelli che devono cambiare modalità di gestione delle riunioni, così come pensare a nuove tecnologie per comunicare lo stato di avanzamento dei progetti (tool come Trello o Jira, tipico del mondo informatico ma anche creati ad hoc) e altre informazioni essenziali.

Questo riguarda anche i colleghi che devono sapere in che modo interfacciarsi con il lavoratore quando è da remoto e capire che l’impegno di tutti deve basarsi sui risultati e non su orari e presenza in ufficio. Il cambiamento pertanto è fortemente culturale e investe tutti: bisogna migliorare i processi responsabilizzando le persone e facendo sì che ognuna di loro non si senta tanto un “dipendente”, quanto un manager (nel senso di “gestore”) per il suo pezzetto di lavoro. Chi si sente responsabilizzato infatti tende a dare il massimo, indipendentemente da dove stia lavorando.

Molte sono le aziende che negli ultimi anni hanno attuato con successo lo smart working, come Axa, che 2 anni fa ha vinto lo Smart Working Award. Nella nota azienda di assicurazioni, il dipendente può, a scelta, sottoscrivere un accordo individuale per gestire in autonomia il proprio tempo, sia con collaboratori, che con clienti. Lo fa ovviamente collaborando con il management, con cui si stabiliscono i giorni della settimana per il lavoro da remoto. Oltre a questo, Axa ha deciso di modificare gli ambienti di lavoro: niente più postazioni fisse, ma posti in cui si può lavorare insieme. L’azienda ha creato anche delle sale individuali in cui i dipendenti possono riposarsi, cercare un attimo di relax per riorganizzare le idee prima di una riunione importante.

Anche le BCC da tempo si stanno indirizzando verso lo smart working, fra le tante sul territorio, citiamo per esempio la BCC ravennate, forlivese e imolese che da più di un anno ha recepito la legislazione sul lavoro agile per migliorare il welfare delle loro persone. I dipendenti, in accordo con l’azienda, possono infatti lavorare in una sede diversa da quella assegnata originariamente, riducendo i tempi degli spostamenti, anche in ottica di rispetto per l’ambiente. Questo, specie per chi lavora parecchio lontano da casa, può essere un punto a favore: evitare code, traffico, o uscire con il gelo invernale. Inoltre, predispone in maniera positiva chi, invece di perdere tanto tempo e stressarsi, può iniziare e concludere la giornata lavorativa in maggior relax.

 

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Il coworking sempre più cruciale per lo smartworking

Se l’isolamento è uno dei problemi del lavoro agile, i coworking sono un ottimo modo per superarlo. Spesso visti come spazi condivisi solo per freelance, possono essere una soluzione anche per le aziende e in molte da tempo l’hanno capito.

Prevedere di affittare una scrivania in un coworking, magari non di grande dimensioni e in cui ci sono altri liberi professionisti, vuol dire pensare a fare star meglio il proprio lavoratore. Per tanti motivi.

Non solo perché lavora in spazi spesso di design, o comunque progettati per favorire l’incontro, ma pure perché trae continuamente linfa dalle persone vicine, anche dal punto di vista professionale. Lavorare in un coworking, per un dipendente di un’azienda che non è in sede o che ha scelto lo smart working per varie ragioni (figli, parenti malati, distanza eccessiva dalla sede, ecc.), vuol dire venire a contatto con persone che fanno cose diverse ed essere sempre aggiornato. Conoscere sì gente, ma anche prospettive, idee, azioni, essere al corrente magari di quello che succede in determinati settori, o riuscire a vedere al di là del proprio.

"Lavorare in un coworking vuol dire venire a contatto con persone che fanno cose diverse ed essere sempre aggiornato".

Vuol dire poi sperimentare la collaborazione a tutto tondo, cosa che a volte non c’è tra i colleghi. Nel coworking, specie in quelli piccoli come sono per esempio i coworking della Rete Cowo ® (più di 100 tra Italia e Svizzera), le occasioni per conoscersi meglio sono tante e non ci sono né l’acredine, né l’invidia che si prova tra i colleghi: quando si ha un problema, è molto più facile alzare la testa, chiedere al vicino di scrivania o raccontarlo durante la pausa pranzo – spesso insieme – per trovare una soluzione. Inoltre, nel coworking, sempre nel rispetto delle norme aziendali, un dipendente può sentirsi più autonomo e allo stesso tempo più responsabile di quello che sta facendo.

E c’è un altro vantaggio che riguarda il dress code: niente giacca e cravatta, ma largo a jeans e sneakers se non si deve incontrare nessuno o non sono previste videocall di un certo tipo.

Se in qualche modo anche l’abbigliamento può influenzare l’umore e a cascata il modo di lavorare, lo smart working può dare un’ulteriore possibilità al dipendente: quello di essere sé stesso, senza dover rispettare per forza delle regole con cui magari proprio quel giorno non si sente a suo agio. Raggiungere gli obiettivi in modalità smart, vuol dire anche questo.

 

 

 

 

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