Fuga dalla Terra

Cambiamenti climatici e migrazioni forzate sono fenomeni che convivono in un rapporto sempre più stretto.

Molte aree del Mondo sono diventate lo scenario di una fuga di massa da fame, siccità ed eventi atmosferici estremi che coinvolge milioni di persone

 

di Erika Facciolla (TuttoGreen)

 

Intere comunità costrette ad abbandonare i propri Paesi d’origine. Economie che si sgretolano. Culture e tradizioni perdute. La migrazione ambientale è una dolorosa realtà condivisa da milioni di uomini, donne e bambini che fuggono dai drammatici effetti dei cambiamenti climatici sull’ambiente. Disastri provocati dall’azione scriteriata dell’uomo, che alcuni si ostinano a chiamare ancora “catastrofi naturali” anche se di naturale hanno ben poco.

"il numero dei migranti ambientali è in costante aumento, così come quello delle vittime provocate dal deterioramento degli ecosistemi".

È un dato: il numero dei migranti ambientali è in costante aumento, così come quello delle vittime provocate dal deterioramento degli ecosistemi. Frane, inondazioni, siccità, uragani, innalzamento del livello dei mari e desertificazione del suolo sono solo alcuni dei gravissimi effetti del “Global Warming” nelle aree più vulnerabili del Mondo. Colpa delle emissioni di gas serra e dei crescenti livelli di inquinamento che continuano ad avvelenare la Terra.

Ma chi sono i profughi ambientali, da cosa e da quali luoghi fuggono, e soprattutto: siamo proprio sicuri che la “Terra Promessa” che stanno cercando esista davvero da qualche altra parte del Mondo?

 

 

L’allarme

L’ultimo Rapporto della Banca Mondiale sul fenomeno della migrazione ambientale ha più i toni di un allarme che di una ricerca scientifica. Secondo le proiezioni elaborate dagli esperti, entro il 2050 il flusso migratorio mondiale conterà altri 143 milioni di profughi ambientali (forzati o volontari), la maggior dei quali concentrata nei Paesi del Sud del Mondo. Persone, famiglie, comunità, intere popolazioni lasceranno le proprie terre per scappare dagli effetti diretti e indiretti del surriscaldamento globale.

Quelli più colpiti sono i Paesi in via di sviluppo e l’Africa, in particolare le regioni sub-sahariane da cui si sposteranno 86 milioni di persone. 40 milioni di profughi lasceranno le zone rurali dell’Asia Meridionale per cercare riparo nei Paesi limitrofi. Altri 17 milioni abbandoneranno le aree più critiche dell’America Latina. Sono i numeri di un’emergenza esistenziale, economica e sociale che ha ben pochi precedenti nella storia dell’umanità.

Eppure, scrivono gli autori del dossier, “il numero di profughi ambientali potrebbe essere ridotto di decine di milioni con un’azione globale per ridurre le emissioni di gas serra e con una pianificazione di sviluppo a lungo termine”. In altre parole, le proporzioni di quella che ha tutta l’aria di una crisi umanitaria annunciata potrebbero ridursi dell’80% se solo venissero adottati piani di sviluppo comunitari più sostenibili e politiche adeguate alla gestione dei processi di migrazione climatica interna.

 

Caldo, guerre e povertà

Secondo l’IDMC (Internal Displacement Monitoring Centre), dal 2008 al 2014, 150 milioni di persone sono state costrette a migrare a causa di eventi meteorologici estremi. Tempeste e alluvioni (85%) sono i fenomeni con l’incidenza maggiore sugli sfollamenti registrati in 6 anni. Ad essere colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici non sono solo le persone, ma intere economie, tradizioni e culture. È il lato oscuro, e forse più inquietante, di un fenomeno che evidentemente non può essere compreso solo con i numeri.

"Ad essere colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici non sono solo le persone, ma intere economie, tradizioni e culture".

Gli spostamenti all’interno dei confini della stessa Nazione rappresentano la tendenza più marcata. Il problema è che nei Paesi più poveri o politicamente instabili questo finisce con l’aggravare la scarsità delle risorse alimentari, il sovraffollamento e, di conseguenza, il conflitto e la disgregazione sociale.

La storia ci insegna che ogni migrazione di massa forzata porta in grembo una trama fitta e complessa di fattori di difficile comprensione. Il caso della Siria è l’esempio più lampante di questa lezione: tra il 2007 e il 2010 la più grave siccità degli ultimi 40 anni ha causato lo spopolamento delle campagne e il crollo della produzione agricola del Paese accelerando, di fatto, l’esplosione del conflitto interno.

Lo spostamento di 1 milione e 500 mila migranti dalle aree rurali alle periferie dei centri urbani (già affollate dai profughi iracheni) ha esasperato un clima di instabilità politica e sociale già sull’orlo del baratro. Una sorte che sembra accomunare il popolo siriano a quello di molte altre popolazioni mediorientali, dove cambiamento climatico, crisi alimentare e instabilità geopolitica si fondono in un “mix” sempre più vicino al collasso.

 

 

Migranti, profughi, rifugiati: questione di termini

Benché il legame tra povertà e cambiamenti climatici sia uno dei motori più potenti della migrazione ambientale, la Convenzione di Ginevra non riconosce lo status di “rifugiato” ai profughi del “Global Warming”. Ciò significa che a queste persone non è garantita una protezione giuridica, semplicemente perché il Diritto Internazionale non lo prevede. Le stesse Nazioni Unite non hanno mai riconosciuto formalmente la definizione di “rifugiato climatico” o “ambientale”, limitandosi per lo più a formule generiche come “migranti ambientali”.

Per questo motivo lo scorso dicembre, alla COP24 sul clima, i rappresentanti dell’Onu si sono riuniti per approvare il Global Compact sulle Migrazioni. Un accordo che impegna 164 Stati a contrastare il cambiamento climatico con azioni comuni e a promuovere piani e politiche di gestione sicura delle migrazioni nei Paesi più vulnerabili. Il documento non è vincolante e non intacca la sovranità dei singoli Stati, ma auspica una cooperazione proficua per sostenere l’enorme peso di questa emergenza globale.

L’Italia non ha firmato l’accordo scegliendo di affidare la discussione al Parlamento. Medesima linea di condotta per Stati Uniti, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Bulgaria e Svizzera che non erano neanche presenti al Vertice di Marrakech.

Eppure, il 18 febbraio 2018, una sentenza storica del Tribunale dell’Aquila ha mosso un primo e significativo passo verso la ridefinizione giuridica del diritto d’asilo in favore dei migranti ambientali.

Con un’ordinanza esemplare, il Giudice ha riconosciuto la protezione umanitaria a un cittadino del Bangladesh che aveva perso il suo terreno durante un’alluvione e, con esso, la principale fonte di reddito e sussistenza per sé e per la famiglia.

La sentenza ha invocato i principi contenuti nell’Articolo 2 della Costituzione Italiana sui diritti inviolabili dell’uomo e quelli della Circolare del 30 luglio 2015 adottata dalla Commissione Nazionale per il diritto di asilo. Nel documento, tra i motivi che giustificano il riconoscimento della protezione per cause umanitarie, sono contemplate anche le “gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi a un rimpatrio in dignità e sicurezza”.

"mettere a punto politiche atte a sostenere e incentivare il ritorno ad un sistema economico sostenibile e vantaggioso per le comunità locali".

Nelle motivazioni della sentenza c’è quindi un riferimento esplicito agli effetti dei cambiamenti climatici sull’economia rurale del Bangladesh, al fenomeno del “land-grabbing” e alla deforestazione, considerate con-cause di migrazione forzata al pari delle persecuzioni politiche.

Temi che devono far riflettere anche sulla necessità di mettere a punto politiche adeguate per le aree del Pianeta più vulnerabili, atte a sostenere e incentivare il ritorno ad un sistema economico sostenibile e vantaggioso per le comunità locali.

Nei Paesi in via di sviluppo, infatti, la finanza cooperativa contribuisce a trattenere nei luoghi di origine i migranti ambientali e ad innescare economie circolari che permettono di passare dall’agricoltura di sussistenza a quella di scambio. È quanto ha fatto il Credito Cooperativo in Ecuador (e in misura diversa in Togo) stanziando 50 milioni di dollari per lo sviluppo di casse rurali popolari accessibili alle comunità locali.

La strategia integrata e generativa delle BCC punta proprio alla promozione di un modello economico cooperativo per promuovere il cambiamento. Un modello replicabile, basato sui principi della reciprocità, della partecipazione e dello scambio di risorse, che crea ricchezza, la trattiene nei territori e la distribuisce tra i membri della comunità che l’hanno generata.

Inoltre, nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro delle BCC / Casse Rurali ed Artigiane è stabilito che, in continuità con le buone prassi adottate nel Sistema, le banche diano disponibilità ad adottare ogni idonea soluzione organizzativa  – anche con riferimento all’orario di lavoro ed all’apertura delle filiali – affinché sia garantita continuità di servizio alle comunità colpite da calamità naturali.

 

Di seguito, le principali risultanze dell’indagine condotta a livello nazionale sulla resilienza delle nostre PMI alle catastrofi naturali, riassunte dagli uffici delle Nazioni Unite, dopo la round-table tenutasi a Bruxelles lo scorso 24 ottobre.

 

Resilienza PMI

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